Ne scriveva anche Matilde Serao (1856-1927) ne Il ventre di Napoli (1884) di una delle città europee e italiane alla quale, non a caso, sono stati dedicati più romanzi dalla fine del XIX secolo. Vuoi per la sua storia, per il suo essere pittoresco e per il carattere della sua gente, ha sempre destato curiosità nei viaggiatori, nei cronisti e negli scrittori anche non napoletani. Basti pensare a Goethe, Collodi, Verga, per arrivare ai giorni nostri con Erri De Luca ed Elena Ferrante. Ed è ancora oggi viva l’immagine della città così come la scrittrice, di origini greche ma napoletana d’adozione, l’ha scritta e narrata.
Il volume nasce come inchiesta giornalistica a seguito dell’epidemia di colera nel 1884 e pubblicato sul romano Capitan Fracassa oltre che a Milano da Treves. Il ventre di Napoli è molto più di una semplice inchiesta. Con il suo romanzo la scrittrice si immerge tanto negli splendori quanto nelle miserie di una città amatissima, là dove lo scempio non può che generare pietà e rabbia. Ventre, ossia i quartieri straripanti di poveri e disadattati che non sanno come tirare avanti, preda del degrado urbano e delle malattie. In quei rioni la gente diventa quasi un archetipo di un modo di fare, di vivere, totalmente differente da quelli che si incontrano nelle altre grandi città dell’Italia dell’epoca: la vendita del latte fatta porta a porta dai caprai invece che in igieniche bottiglie di vetro, il continuo rifugio dei napoletani nelle credenze pagane e cattoliche (come dimostra la presenza, in parecchi angoli, degli “altarini” dedicati alla Madonna e ai santi), ma allo stesso tempo è la capacità di adattarsi alle difficoltà quotidiane senza perdersi d’animo, è il prendere atto della profonda povertà dei vicoli affogati da friggitorie e banchi del lotto, l’affollamento nei bassi, lo sfruttamento del lavoro minorile. Il ventre, così come il cuore di Napoli, nascondeva profonde difficoltà ignorate dai più, ma che l’autrice è riuscita a portare all’attenzione nazionale senza dimenticare, allo stesso tempo, quanta bellezza è insita nel territorio partenopeo, distrutto da una cattiva gestione che, anche dopo un intervento radicale come il Risanamento, non è emersa del tutto. Mossa dall’indignazione, quella stessa che vena la sua sontuosa penna, la Serao dà inizio al suo lavoro lanciando al governo un appello che, lontano da qualsivoglia tipologia di retorica, rivela lo status di emergenza proprio della Napoli del tempo. E’ una denuncia malinconica, ma non senza finalità costruttive e propositive. Infatti, al governo, presieduto da Agostino Depretis, che, imbattutosi nel vicoli stretti e bui, dietro le vie principali, si limita ad esclamare “Bisogna sventrare Napoli”, risponde: “Sventrare Napoli? Credete che basterà? Vi lusingate che basteranno tre, quattro strade, attraverso i quartieri popolari, per salvarli? […] Per distruggere la corruzione materiale e quella morale, per rifare la coscienza e la salute a quella povera gente, per insegnare loro come si vive […] – per dire loro che essi sono fratelli nostri, che noi li amiamo efficacemente, che vogliamo salvarli, non basta sventrare Napoli: bisogna quasi tutta rifarla”. Esplicitato così il suo messaggio- denuncia, nonché il bisogno di iniziative concrete e realistiche, Matilde Serao, alla stregua di un moderno Virgilio, conduce il lettore in uno scenario urbano che regala una precisa descrizione non soltanto delle problematiche della città vesuviana, ma anche delle tradizioni e delle usanze del tempo. La parte terza, per esempio, è dedicata al cibo, intitolata Quello che mangiano. A proposito della pizza napoletana, patrimonio UNESCO dal 2017, la Serao scrive:
Il pizzaiuolo che ha bottega, nella notte, fa un gran numero di queste schiacciate rotonde, di una pasta densa, che si brucia ma non si cuoce, cariche di pomidoro quasi crudo, di aglio, di pepe, di origano: queste pizze divise in tanti settori da un soldo, sono affidate a un garzone, che le va a vendere in qualche angolo di strada, sovra un banchetto ambulante e lì resta quasi tutto il giorno, con questi settori di pizza che si gelano al freddo, che si ingialliscono al sole, mangiati dalle mosche. Vi sono anche delle fette di due centesimi, pei bimbi che vanno a scuola; quando la provvigione è finita, il pizzaiolo la rifornisce, sino a notte. Vi sono anche, per la notte, dei garzoni che portano sulla testa un grande scudo convesso di stagno, entro cui stanno queste fette di pizza e girano pei vicoli e danno un grido speciale, dicendo che la pizza l’hanno col pomidoro e con l’aglio, con la mozzarella e con le alici salate. Le povere donne sedute sullo scalino del basso, ne comprano e cenano, cioè pranzano, con questo soldo di pizza.
Il Ventre di Napoli è il primo reportage letterario italiano, una sincera e fedele fotografia della Napoli di fine Ottocento, una città che oggi come allora, e come tutto il Meridione, continua a fare sforzi per godere di una giusta considerazione che faccia da scudo ai suoi detrattori.